Vito Ferro
Autore di Festival Maracanã
Vito Ferro è nato nel 1977 a Torino. Ha pubblicato anche “L’ho lasciata perché l’amavo troppo” (Coniglio editore, 2007), “Condominio reale” (Edizioni di Latta, 2007), “Mentre la luce sale” (LietoColle, 2008), “La vita va avanti” (Autori Riuniti, 2016), “La perdita degli anni” (Autori Riuniti, 2018).
Per Las Vegas edizioni ha pubblicato “Festival Maracanã“ nel 2012. Nel 2023 è uscita una nuova edizione.
Insegna scrittura creativa e cura “Podcast don’t tell”, podcast dedicato alle storie.
Organizza eventi e iniziative culturali presso lo spazio culturale Trama a Torino.
Primo capitolo
1.
L’idea spuntò un martedì sera di febbraio alle cantine Pia, seduti davanti a del vino scadente e un portacenere colmo. L’idea si materializzò tra pensieri guasti e silenzi retroattivi.
Fuori, le Velealte davano il peggio di sé.
Pioveva, e la massa enorme del cielo era sporca di grigio e come fatta della gelatina opaca della Simmenthal.
La strada, ai lati della quale erano infilzati i soliti alberi ossuti, era deserta.
Probabilmente tutta la gente del quartiere stava in casa a guardare un quiz di Gerry Scotti o a escogitare un metodo indolore e veloce per morire.
Il barista barbuto, faccia da cattivo di film d’azione americani, puliva dei bicchieri; intanto buttava un occhio ai nostri, per vedere se casomai fosse ora che noi ordinassimo altro. Ma noi tenevamo il livello del vino nei calici costante proprio per non dover prendere un’altra consumazione.
In tre possedevamo la bellezza di due euro e trentacinque centesimi.
Ci sentivamo come dentro una barzelletta.
Eravamo al caldo di quella bettola da più di un’ora. Bottiglie di vino vecchie, il bancone color polvere scura, il distributore di ceci duri e un vecchio ubriaco semicosciente dimenticato sulla sua sedia da chissà quanto ci facevano compagnia.
Febbraio alle Velealte non è proprio il mese dell’allegria, anche se il Carnevale era alle porte.
Tutt’altra storia rispetto a Rio.
Quando eravamo bambini quel periodo ci entusiasmava.
La parrocchia organizzava la sfilata del carro. Un carro solo, ricavato da un rimorchio trainato da un trattore, dietro al quale la frotta di mocciosi e adolescenti rissosi smaniava cercando di fare più casino possibile, spruzzando schiuma a casaccio, tirando petardi potentissimi, ridendo forte.
I pochi mascherati, sul carro o a piedi, venivano derisi e torturati dai bulli (rigorosamente in borghese) con sempre nuovi e creativi accorgimenti.
I travestimenti che andavano alla grande erano quelli da Superman, da fatina, da Zorro.
Chi voleva travestirsi ma non pigliarsi botte sceglieva un più sobrio abbigliamento da punk.
Ma ora, arrivati ai trent’anni, disperati, disoccupati o quasi, mogi, senza orizzonti nei quali tuffarsi, il Carnevale per noi non era che una stupida ricorrenza vuota di significato, capace solo di farci sgranocchiare saltuariamente qualche bugia, reale o metaforica che fosse.
Il vino sapeva di aceto e paranoia.
Alle pareti c’erano poster ingialliti di paesi esotici e l’intero Torino schiantatosi a Superga.
Ordinammo un caffè e mezzo. Tutto quello che potevamo permetterci.
«Perché non organizziamo un festival?» sussurrò Tommy scuotendo la testa rasata.
«Un festival serio, come Woodstock, all’aria aperta, giorno e notte di musica e birre, gruppi, bella gente, allegria?» Si materializzò nelle nostre menti l’immagine di San Francisco, della Summer of Love, di gente che ballava ubriaca le note di Hendrix, di tipe in topless generose e sorridenti con dei fiori nei capelli.
La visione del quartiere oltre le vetrine della cantina si sovrappose subito alle tette ballonzolanti delle tipe.
«See, come no… qui alle Velealte…» sospirammo piano io e Casimiro.
Laura Ribotta –
Simpatico e surreale, continuo ancora a chiedermi cosa ci sia di vero e cosa di immaginato…