Marco Candida
Autore di Il bisogno dei segreti
Marco Candida è nato nel 1978 a Tortona (AL). Ha pubblicato “La mania per l’alfabeto” (Sironi, 2007), “Il diario dei sogni” (Las Vegas edizioni, 2008), “Domani avrò trent’anni” (Eumeswil, 2008), “Il mostro della piscina” (Intermezzi, 2009), “Il bisogno dei segreti” (Las Vegas edizioni, 2011), “Bamboccioni voodoo” (Historica, 2012), “Il ricordo di Daniel” (Anordest, 2013), “Il campione di ping pong” (AbelBooks, 2014), “La guarigione” (Zona, 2015). “La notte della donna nera” (Il Foglio, 2016), “Trova il tuo peccato” (Edizioni della Goccia, 2016). Un estratto del romanzo “Il diario dei sogni” è stato inserito nell’antologia americana “Best European Fiction 2011” (Dalkey Archive Press, 2010).
Primo capitolo
Nel 2006 – non ricordo la data precisa – durante la mia prima visita dallo psichiatra mi venne prescritto un farmaco antidepressivo di nome Cipralex. Mi presentai dallo psichiatra a quattro passi da casa mia in seguito a una serie di attacchi di panico violentissimi che si erano verificati nell’arco di tre mesi circa – ma anche in questo caso non ricordo le date precise e non ricordo nemmeno il numero preciso di attacchi di panico. Di questi attacchi due mi avevano portato a chiedere assistenza al pronto soccorso. Qui la prima volta mi furono somministrate dieci gocce di un calmante. La seconda volta, invece, mi fu diagnosticata un’allucinazione e mi venne spiegato che la cosa migliore sarebbe stata a quel punto rivolgermi a uno psichiatra. Mentre leggevo il foglietto che mi era stato consegnato al pronto soccorso, non riuscivo a credere che il cannoneggiamento che avevo sentito dentro il petto e il problema piuttosto frequente di non riuscire a prendere fiato fossero dovuti a un’allucinazione. Per me si era trattato di cose che avevo provato e non di fantasie: muscoli al mio interno che si muovevano, che si stringevano oppure che si dilatavano, e tutto questo senza che potessi fare molto perché non succedesse.
Il primo attacco mi aveva preso nel mio appartamento a Genova. Da una settimana circa avevo terminato il romanzo che stavo scrivendo e lo avevo appena spedito per posta ordinaria ad alcune case editrici perché lo leggessero. Avevo impiegato due anni per scrivere il romanzo, ma quasi metà del libro – fanno più di trecento pagine – era stata scritta negl’ultimi due mesi. Per terminarlo e consegnarlo il prima possibile – sentivo i tempi maturi e di non dover aspettare oltre –, avevo assunto grandi dosi di caffeina. Ora, è necessario sapere che sono una persona parecchio ansiosa. Per questa ragione da tempo – circa da quando ho compiuto diciannove anni – evito la caffeina e nemmeno faccio uso di qualsiasi altra sostanza di tipo eccitante. Per di più non fumo perché il fumo mi genera una sensazione di blocco alla gola e all’esofago e sto attento anche con i superalcolici perché possono farmi alzare la pressione e provocarmi l’accelerazione dei battiti del cuore. Così voglio pensare che sia stata soprattutto la grande quantità di caffeina che ho ingerito negl’ultimi due mesi di stesura del romanzo il motivo – per me che soffro di pressione arteriosa tendenzialmente alta – che ha scatenato gli attacchi di panico, anche se molto probabilmente sotto c’è dell’altro.
Nel 2005 pochi mesi prima che finissi dallo psichiatra, un mio amico carissimo era morto. In conseguenza di questo, per quindici giorni almeno, le lacrime mi erano affiorate nei momenti più inattesi. In aggiunta, nel 2005, circa un anno prima degli attacchi di panico, e precisamente il 28 febbraio 2005, il mio contratto di lavoro a tempo determinato presso la ditta dove lavoravo da due anni e tre mesi si era concluso e io da quel momento, con qualche eccezione piccola e imbarazzante, non ho lavorato più.
Questo comporta, almeno per come sembra a me, che quando alla fine del gennaio 2006 avevo inserito il manoscritto del mio romanzo nelle buste da spedire per posta ordinaria alle case editrici che avevo giudicato più adatte a leggerlo ed eventualmente a pubblicarlo, non avessi inserito assieme al manoscritto soltanto qualcosa come una generica ambizione, ma, se vogliamo, qualcosa di ancora più generico, inspiegabile e melodrammatico: avevo inserito la mia sopravvivenza, tutto il senso della mia esistenza. Se il manoscritto non fosse stato accettato e io a ventisette anni non fossi diventato qualcosa, adesso, senza una laurea, senza un lavoro, non sarei niente. All’epoca non avevo nemmeno una ragazza. Avevo soltanto una storia che pretendevo fosse la mia storia d’amore e che invece altro non era che una sequenza di incontri che cuciti assieme non davano nulla che avesse un senso.