Le trasmissioni riprenderanno il più presto possibile

di Gianluca Mercadante

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Tenere seduto un parrucchiere è una sfida che non auguro di tentare ad anima viva. Neppure il coronavirus può illudersi di spuntarla.
In offerta!

Cosa fa un parrucchiere durante una pandemia? Ancora meglio: un parrucchiere-scrittore, cosa si inventa? Col salone chiuso, un cane, una mamma in casa di riposo, un pc e tanto, davvero tanto tempo a disposizione? Ovvio immaginarlo: scrive. Un diario, per la precisione. Ma non un diario qualsiasi. Niente pensierini in libertà, niente sogni, niente rimpianti e ricordi, niente “quando finirà, se sopravvivrò, la prima cosa che farò sarà”.

Scrive un diario di una quarantena, che non è un diario classico: è una raccolta cadenzata di esperienze, riflessioni, dialoghi, distopie, elenchi, consapevolezze, rivelazioni, visioni. È feroce, divertente, leggero e profondo. È una presa di coscienza che parte da sé e arriva al mondo. Che da qualche parte è là fuori, o là dentro, in attesa, come lui.

In attesa che tutto questo finisca.

Formato ebook: epub senza DRM
Uscita: maggio 2020
Isbn ebook: 9788831260077

COD: 9788831260077 Categorie: , Tag: , , ,
Gianluca Mercadante

Gianluca Mercadante

Autore di Banda cittadina

Gianluca Mercadante è nato nel 1976 a Vercelli. Ha pubblicato “McLoveMenu” (Stampa Alternativa, 2002), “Il banco dei somari” (NoReply, 2005), “Nodo al Pettine - Confessioni di un parrucchiere anarchico” (Alacràn, 2006), e per Las Vegas edizioni “Polaroid” (2008), “Cherosene” (2010), “Caro scrittore in erba...” (2013; 2021). “Caro lettore in erba...” (2015), “Casinò Hormonal” (2018), “Le trasmissioni riprenderanno il più presto possibile” (2020), “L’Isola Senza Tempo” (2020) e “Banda cittadina” (2024).
Questo è il suo sito.

Contenuti speciali

Primo capitolo

Giorno 1

Ho dimenticato di rimuovere la sveglia del cellulare, ieri sera, dopo aver atteso che Conte terminasse di annunciare il decreto che ordina la chiusura di tutte le attività commerciali – e finalmente ha nominato parrucchieri e centri estetici, categorie finora ignorate.
Mi chiamo Gianluca Mercadante e faccio il parrucchiere da trent’anni. Coltivo inoltre (mio malgrado) il vezzo di scrivere libri, e di leggerne a tonnellate, ma è grazie alla professione con la quale mi sostengo se non ho idea di cosa significhi non aver voglia di alzarsi dal letto per andare a lavorare.
Ho idea di cosa significhi non aver voglia di alzarsi e basta, sono pigro e resterei a crogiolarmi nel dormiveglia ore e ore. Come faccio una volta silenziata la sveglia, che provvederò a disattivare.
Ripenso alle ultime giornate, massacranti più del solito. Il formicolio che da qualche tempo in qua attraversa il braccio destro, ed esplode al centro della mano con un bruciore acuto, me lo rammenta molto meglio di quanto già non riuscisse ogni mattina.
Lavoro in un negozio che gestisco da solo, ricevo su appuntamento e ho ridotto a zero l’attesa fra una persona e la successiva. Il problema è che ho appuntamenti di mezz’ora in mezz’ora – e questo vuol dire, in termini pratici, che di trenta minuti in trenta minuti sono chiamato a servire qualcuno che si fida di me. Perfino in questa confusionaria circostanza.
Nell’ambito operativo della mia professione è considerata routine sterilizzare i materiali che entrano in contatto con la clientela – e forse il governo, dando per scontato che normalmente noi si agisca secondo questo protocollo, in un primo approccio sulle misure di sicurezza da imporre abbia dato altrettanto per scontato che i nostri negozi fossero luoghi sicuri.
In una situazione per l’appunto normale sarei pronto a sottoscriverlo, almeno per quanto mi concerne. Ma questa situazione normale non è.
A fronte dunque del fatto che nessun decreto circostanziava informazioni a tal riguardo, mi sono permesso di pensare nell’immediato che quel che facevo non fosse abbastanza e da par mio mi sono organizzato, in regime di totale autonomia e arbitrarietà.
Ho innanzitutto esteso le tempistiche, in maniera che mi fosse possibile eseguire davanti all’utente una pulizia completa – e manuale – dei ferri, prima e dopo l’uso, per poi passare a sanificare il posto che ha occupato. Ho eliminato una poltrona e distanziato le sedute per garantire il metro di distanza fra i clienti, che si sono unanimemente sentiti rassicurati e protetti dall’atteggiamento marziale che ho voluto adottare – e, in qualche modo, ingiungere loro. L’unico a cui non ho potuto per ovvie ragioni offrire garanzie sono io, le mie difese: guanti, mascherina, disinfettanti e un po’ di buon senso.
Non pago, ho ordinato pacchi su pacchi di mantelle monouso, che “normalmente” utilizziamo per colori e permanenti. Le ho impiegate nell’esecuzione dei tagli. A ognuno la sua, è roba che si butta.
Quando il rappresentante mi ha consegnato la scatola – che fra parentesi devo ancora saldare –, s’è innescato fra me e lui un dialogo grottesco.
«Mi raccomando» ha detto, sottovoce nonostante fossimo soli. «Non è che ti metti a scriverla su Facebook, ’sta cosa delle mantelle?»
Sono ben poco social, lo ammetto. Uso Facebook nell’esclusivo e dichiarato intento di promuovere l’attività che svolgo da scrittore: uscite in libreria, presentazioni, eventi letterari che mi coinvolgono, interviste, recensioni ricevute, o scritte da me su libri di altri. Non ho Instagram, né WhatsApp, ebbene no, e ho ancora un vecchio Nokia. Telefonini che consentono la vita, li chiamo.
Quindi perché dovrei nutrire tanta urgenza di comunicare che nel mio negozio, cui su Facebook non accenno mai, ho deciso di utilizzare mantelle monouso su tutti?
Notandomi accigliato a quell’uscita, il rappresentante ha aggiunto, a mo’ di ulteriore chiarimento:
«Sei l’unico fra i tuoi colleghi di mia conoscenza ad averci pensato. Se lo dici facciamo la fine delle farmacie con le mascherine!…»
Il decreto Conte ha rasserenato pure lui, poveretto, costretto a girare dalla mattina alla sera. Non c’è stato bisogno di postare consigli a beneficio di colleghi, per altro la mia lista di amici non è che ne pulluli.
Da adesso siamo a casa. Io, il rappresentante, quasi tutti.
Mentre sto per chiedermi chi siano di preciso quei “quasi tutti”, e quanto li senta vicini per aver anch’io lavorato nello stress che sicuramente subiranno dovendo comunque svolgere le proprie mansioni, una serranda, dabbasso, si solleva.
Ho le allucinazioni, penso. Sarà il dolore al braccio, che mi spinge a sprofondare dentro un nirvana ingannevole, nel quale il mondo continua a vivere una quotidianità inalterata.
Invece, poco più tardi, se ne sente un’altra.
Suoni rassicuranti, oggi. I suoni di sempre, la colonna sonora della mia “normalità”. E sono veri, non ho dovuto decidere fra la pillola blu o la pillola rossa.
Mi alzo, inforco gli occhiali, mi precipito alle finestre con l’apprensione che ieri, e qualsiasi mattina precedente, dirottava in bagno i miei passi. La pipì da appena svegli è un diktat.
Tiro su le tapparelle, la vescica che sento scoppiare passa in second’ordine, come i futili egoismi di ognuno di noi in questo particolare momento. Ma permettetemi di essere futilmente egoista, due secondi. Il tempo di apprezzare il fatto di abitare sull’incrocio di un corso dove ho farmacia e tabaccaio sotto casa e una panetteria sull’opposto lato. Aperti.
In quei due secondi di futilissimo egoismo voglio sentirmene felice, alla faccia di chi ci lavora con l’ansia addosso, propria e altrui. In quei due secondi mi piace addirittura pensare che si sia trattato di un incubo. Il coronavirus non esiste, non esiste alcuna emergenza, devo aver letto un po’ troppi libri di James G. Ballard e digerito male la cena.
Basta però che abbassi di un niente lo sguardo ed ecco che nel campo visivo rilevo la presenza sul marciapiede di alcune persone; attendono il turno fuori dalla farmacia, distanti un metro le une dalle altre, con indosso la mascherina, o un foulard.
Sembra un carnevale triste, una danza malata.
È la mattina del 12 marzo 2020. Buongiorno Italia, buongiorno Maria.
Il cane, che uggiola in salotto da quando s’è accorto che il padrone, di là, è tornato fra i vivi, esige la sua passeggiata lo stesso.

La rassegna stampa

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