Giuse Alemanno
autore di Nero finale
Giuse Alemanno è nato nel 1962 a Copertino (LE) e vive tra Taranto, Martina Franca e Manduria. Ha pubblicato diversi libri, tra cui il romanzo “Terra Nera” (Stampa Alternativa, 2005), i due romanzi su Don Fefé e Ciccillo, due testi sull’Ilva di Taranto. “Come belve feroci” è il primo capitolo della saga dei Sarmenta, a cui fanno seguito “Mattanza” (Las Vegas edizioni, 2019) e “Nero finale” (Las Vegas edizioni, 2022).
Primo capitolo
Prima parte
Gli insetti volanti sbattono contro i vetri perché non capiscono
che tra loro e la libertà c’è una trasparenza invalicabile.
Nino Inno non ci capiva più niente. Una vita impiegata all’inseguimento del potere, del denaro e del consolidamento dell’autorità della famiglia – fino al raggiungimento del risultato simbolico e materialissimo insieme: la clinica Madonna del Rosario a Sant’Agata sullo Jonio – messa in difficoltà da un rimpasto della Giunta regionale calabrese.
Grazie all’indagine di certi sbirri cornuti erano emersi alcuni fenomeni corruttivi nella sanità calabrese. Ore e ore di intercettazioni e una massa di riscontri oggettivi inchiodavano alle sue responsabilità quell’assessore alla Sanità che tanto si era speso per convenzionare la clinica Madonna del Rosario al Servizio sanitario regionale. Insieme a lui erano stati trascinati nel torbido anche il direttore generale dell’Azienda sanitaria provinciale di Catanzaro e due suoi uomini di fiducia: il direttore amministrativo e il direttore sanitario.
Tutti costretti a dimissioni.
Il presidente della Regione Calabria, pena lo scioglimento anticipato della sua giunta, dovette nominare d’urgenza un altro assessore alla Sanità e – sottoposto alle luci moralizzanti della ribalta mediatica – fu obbligato a designare un galantuomo onesto e competente.
E per Nino Inno furono cazzi.
Si rivolse al senatore brillante che da sempre prendeva i voti della famiglia, quello che stava bene con il sottosegretario alla Sanità, ma costui si esibì nel famoso “passo d’artista”: una piccola marcia indietro buona a evitare le noie che le contingenze portano con sé.
Quando a Nino Inno arrivò la notizia del primo taglio dei fondi regionali stanziati a favore della sua clinica, avrebbe voluto dare la testa contro il muro. Valutò l’ipotesi di far saltare, con un’autobomba, il palazzo del Dipartimento Tutela della Salute e Sanità di Catanzaro, ma il buon senso lo portò a desistere: le conseguenze avrebbero certo aumentato le difficoltà già presenti.
Nino Inno aveva diversificato le fonti dei propri introiti, aveva investito nella liceità della clinica i soldi fatti con i mali mestieri della ’ndrangheta, perché aveva capito che l’Italia stava cambiando. Un coglione di assessore regionale alla Sanità che si faceva intercettare dagli sbirri era un infortunio che avrebbe dovuto prevedere e che bisognava ammortizzare.
E le bombe non erano adatte a tale scopo.
Meglio gli amici. Solo uno non aveva deluso mai Nino Inno: Ciro Barrese.
Ne avrebbe parlato a Lidia e a sua figlia Anna Maria, che ormai dirigeva la clinica: per la Madonna del Rosario si apprestava un periodo di purgatorio. Bisognava difendersi e lottare. Solo se le complicazioni fossero davvero diventate insostenibili si sarebbe fatto ricorso all’aiuto del professor Ciro Barrese.
Ora, per gli Inno, era tempo di resistenza.