Giuseppe Sofo
Autore di Quest’alba radioattiva
Giuseppe Sofo è nato nel 1984 a Garbagnate Milanese (MI). Ha pubblicato “Dollville” (Incontri, 2006), “Qui lo chiamano blues” (Azimut, 2008), “Brema” (Morellini, 2010), “Trinidad & Tobago. Carnevale, fango e colori” (Miraggi, 2011) e “Quest’alba radioattiva” (Las Vegas edizioni, 2011).
Primo capitolo
Zero
E poi arrivi tu.
Arrivi mentre sto sciogliendo in un daiquiri un sorriso che tu non conosci. Anzi, mentre ci sto provando, sapendo già che non ci riuscirò. Le mie gambe nella notte si muovono con una lentezza non controllata dal mio cervello, e le mani cercano il bicchiere, solo per sentire il contatto con qualcosa di concreto. E per buttare giù altri sorsi di calore.
Bevo per non crollare, stanotte. Per nutrire quel poco d’amore che mi è rimasto con il mio fegato. Altro ghiaccio, altro lime, e sento che il barman pesta anche i miei pensieri. Era stata la mia giornata, lei, le mie ore. La scusa che trovavo di tanto in tanto per vivere e per dimenticare la tentazione del buio, del silenzio. Ma questa sera il silenzio è l’unica cosa che mi accompagna.
Mi sento addosso il movimento dei corpi che mi circondano. Io non vedo loro e loro non vedono me, lo scontrarsi degli atomi che ci dividono è l’unica cosa che ci accomuna. E non è per l’alcol, perché quello non mi ha mai fatto dimenticare niente, è che in questo momento non esiste veramente nulla intorno a me.
Sento nomi di cocktail pronunciati da voci sempre diverse intorno a me, e ripeto meccanicamente le parole di una ragazza al mio fianco, senza che l’ordine passi per il cervello, così dopo qualche minuto assaggio quello che non so di avere ordinato. Ma il rum non lava via il suo sapore, e la menta non cancella il respirarla. Penso a ciò che di lei resta nel mio cervello: poco. Il profumo dei suoi capelli, la finta timidezza del suo sguardo, un vestito nero che le avevo comprato a due franchi in un mercatino di Zurigo, la sua capacità di farmi sorridere dei miei difetti peggiori. La voglia che avevo di prenderla per le mani e farla volare.
Chiedo al barman un mojito. Voglio brindare con lei alla sua assenza, per ringraziarla di avermi ucciso nel miglior modo possibile. Avrei potuto morire di infarto a novant’anni o di alcol e droghe a trenta, e invece sono morto di lei, a poco più di venti. Del suo sorriso che non svanisce nei vapori di un blanco, e che il buio di questa notte solitaria non mi aiuta a perdere.
E poi arrivi tu.
Arrivi tu con solo una parola. Una sola, ma che può aprire un mondo.
Mi chiami “straniero”. Mi dici “ciao, straniero”, e io mi rendo conto che tu straniera non sei. Che ti ho già conosciuta e che se anche non l’avessi fatto, ti avrei comunque conosciuta da sempre. Perché hai quel labbro che si muove in quel modo lì, che sembra quasi dirmi: “Non ti ricordi di me? Dove sei stato tutto questo tempo?”.